La sarta

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L’amica di famiglia racconta:

”C’era la guerra quando iniziai a frequentare la scuola di cucito del paese, con il sogno di diventare un giorno ” maestra couturière” in una maison di moda a Parigi.

La sartoria gestita dalla Signora Elvira, si trovava in un locale sotterraneo del collegio che, durante i bombardamenti, veniva usato come rifugio antiaereo.

Imparavamo l’arte del cucito e del ricamo a mano: il punto filza, il punto catenella, il sottopunto, il sorgetto  e tanto altro.

Ci insegnavano anche a cucire a macchina per  riparare e modificare abiti usati da rivendere. Nei mercati era ormai impossibile trovare merce nuova.

Nonostante ci fosse la guerra, c’era molta speranza nel domani. Ci ordinavano di confezionare i corredi per le spose che ricamavamo con tanta cura e maestria e orlavamo con cuciture fatte mano per impreziosirle.

Si sperava nella pace tanto da farci ricamare le bandiere con il nome del paese e con l’anno della leva, anno in cui i ragazzi partivano orgogliosi e ignari per il servizio militare.

Con una bella grafia, disegnavamo sulla carta velina il nome e la data di nascita del milite, che poi ricalcavamo delicatamente sulla bandiera.

Chi aveva poca manualità o difficoltà di vista, imparava cose semplici come l’uncinetto o la maglia seguite da Renata, sorella dell’insegnante.

Lei, ragazza simpatica, intelligente, affettuosa, rimase poco con noi perché fu colpita dal tifo, un’epidemia dovuta all’inquinamento delle acque in seguito ai bombardamenti sugli acquedotti.

La guerra continuava e il nostro laboratorio divenne stretto e scomodo, a cucire con noi si erano unite le orfanelle sfollate del paese vicino.

Il loro caseggiato, come tutto il paese, per una ritorsione da parte dei tedeschi nei confronti dei partigiani, era stato incendiato.

Purtroppo ci furono molte vittime, gli animali fuggirono nei boschi e il vivace villaggio fu ridotto in un cumulo di rovine, cenere e fumo.

Gli spari delle mitragliatrici si sentivano in continuazione.

Un giorno il bombardamento ci toccò da vicino: quel pomeriggio la signora Elvira ebbe un presentimento, vedendo da lontano i bambini recarsi a scuola si precipitò verso di loro e li obbigò a tornare a casa.

“Dopo poche ore, dal nostro laboratorio ormai rifugio, sentiamo il suono della sirena che ci da l’allarme per un probabile bombardamento.

Segue quasi subito uno schianto, un forte boato, abbiamo paura di non uscire più da sotto le macerie, ci abbracciamo strette strette in assoluto silenzio.
Finalmente vediamo in fondo alle scale una figura che a tentoni si avvicina nel buio del sotterraneo con un lumicino in mano. Sembra un fantasma bianco ricoperto da calcinacci e polvere, non muoviamo, non parliamo, abbiamo smesso anche di piangere. Tutto intorno c’è silenzio, fissiamo il lumicino e riconosciamo Elvira, la nostra insegnante.

La sua presenza ci tranquillizza e ci guida vive verso l’uscita.

Fuori, intorno a noi, non c’è più niente, la scuola adiacente è stata rasa al suolo.

Arrivano i soccorsi, ma per il bidello non c’è più niente da fare.

La piazza è invasa dai calcinacci, le strade sono deserte, circolano solo alcuni soccorritori che corrono scavalcando le macerie”.

Perchè tanata violenza? Nessuno ne conosceva le ragioni.

Le persone come noi, piene di paura, erano impietrite come statue davanti a quello scempio.

Si viveva con le luci spente per evitare le bombe e chi non aveva un rifugio dormiva nei fossi sugli argini dei fiumi.

Dopo l’incursione che ci aveva colpito da vicino, la paura era aumentata. Avevamo imparato che ogni sibilo di pallottola che sentivamo, significava una persona colpita a morte.

Ne avevamo viste tante distese a terra…

Al suono delle sirene presagivo l’odore acre del passato e mi sentivo male, persino i cani non smettevano di ululare.

La guerra stava quasi per finire quando sulla strettoia del ponte di ferro vidi passare degli uomini a testa bassa che si trascinavano con i piedi fasciati sanguinanti, barbe lunghe,  borracce vuote penzolanti sul petto: sembravano tronchi umani. Affamati,  ognuno nel suo dialetto, ci chiedevano un disperato aiuto.

C’era anche chi portava in spalle un amico ferito incapace di camminare.

Visi tristi che chiedevano pietà.

Noi potevamo offrire loro solo acqua del torrente perché anche nelle nostre famiglie non c’era molto da mangiare, solo minestra di erbe dei campi, qualche crosta di pane di mais e della crusca.

Se qualcuno riusciva a trovare della frutta, ne mangiava tutto: buccia semi e torsolo compreso.

Osservando questi uomini pensavo alle loro mamme in preghiera e in ansia, che pena se li avessero visti così sofferenti.

Li aspettavano a casa con la speranza che fossero vivi.

La notte dormivano con la porta aperta in attesa di vederli tornare e di giorno fissavano  la strada vuota.

A uno di loro spararono a pochi chilometri da casa, chi ebbe la forza di portare la notizia alla madre ormai certa del suo arrivo?

Dopo il bombardamento il laboratorio fu chiuso. Elvira, la nostra maestra, fu prelevata e portata via a forza dalla sua casa in un un giorno che, il cielo nero con tuoni e lampi, minacciava grandine. Indossava uno scialletto colorato per nascondere la testa rasata a zero dai partigiani. Il suo viso era inespressivo.

Gli uomini che la portarono via avevano occhi ironici e sorrisi beffardi.

Perché sapeva del probabile bombardamento vicino alla scuola? Sarà stata una spia?

Non lo sapremo mai, ma tante famiglie le sono riconoscenti perché ha salvato la vita dei loro bambini!0_Antica_Tovaglia_Puro_Lino_Con_Speciali_Ricami_A_Mano_MTMyNjQ5NzQ3Njc0_medium

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  • foto dal web

68 pensieri riguardo “La sarta

  1. a oltre settant’anni dalla fine di quell’atroce conflitto che ha portato lutti e dolori, ricordare è un giusto monito per non ripetere quell’insana follia.
    Al di là di queste considerazioni il racconto è piacevole da leggere per quel sottile senso di dolore che si porta dentro.

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  2. Che storia!!! Sembrava di vedere le scene di un film..invece purtroppo una orribile realta’..la cosa triste è che nel 2018 esistono paesi nelle medesime condizioni..tanta tecnologia per rimanere gli stessi ignoranti!!

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  3. Quello che mi piace è l’occhio di questa donna che racconta (e con il suo anche il tuo, che sei l’interprete del suo dire). Non guarda il colore delle divise, sul ponte vede solo uomini sofferenti. E anche dopo, a guerra finita, ha solo parole di pietà per la sua insegnante, non le “guarda” la testa rasata ma i bambini che ha salvato.
    Una bella persona.
    ml

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  4. Le persone con un grande cuore non hanno paura della morte.
    Anche mio padre ci raccontava sempre di tutti gli anni che aveva passato in guerra come soldato e di quanti ne aveva aiutati a non morire di fame.
    Grazie per avercela raccontata.

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  5. Guardando quei ricami e prima leggendo, mi sono tornati a mente i miei lavoretti di qualche ” annetto ” fa ( le virgolette fanno capire che ne sono passati un bel po’ di anni,,, ), quando alle medie c’era l’ora di applicazione tecniche. Ho iniziato lì a fare qualche centrino. Ricordo quel tempo con tanta tenerezza. Sempre grazie mia cara. Bella lettura. Complimenti. Un abbraccio. Isabella

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  6. Figurati, è sempre un piacere passare da te. Mi dispiace che troppo poco tempo ti dedico. Forse sbaglio io. Mi va di rispondere sempre prima alle notifiche, e poi il tempo che mi rimane per girare e leggervi è troppo poco. Pazienza, faccio quello che posso ma non vi dimentico.. Baci. Isabella

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  7. I tuoi racconti hanno intrinseca una magia, forte misteriosa ed affascinante, quella di trasportare indietro nel tempo le persone che li leggono con il cuore.
    Sono davanti ad un torrente con tante rane che gracchiano eccitate per il temporale che sta arrivando. Ma per tutto il tempo che ho letto non ho sentito nulla, completamente trasportato dal racconto.

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